… a riveder le stelle

A riveder le stelle

Difficile porsi una domanda più oziosa e sterile, come quella d’interrogarsi se una grande pagina letteraria sia attuale o meno, pulsante e viva, capace di parlare agli uomini di oggi e forse di domani, per il semplice fatto, appunto, che un capolavoro non ha tempo, si muove oltre la storia, in una dimensione sontuosa e magica, metafisica, quasi religiosa: cioè, per il semplice fatto – ci suggeriva Leopardi nello Zibaldone – che c’è un punto in cui l’infinitesimo tocca l’infinito, indagare nella profondità dell’io corrisponde a visualizzare l’universale, investigare nell’interiorità dell’uomo equivale ad estendere il proprio sguardo verso il generale. Un po’ quello che, più prosaicamente, rilevava Roberto Benigni, durante le sue acclamate lezioni sulla Commedia, ricordandoci che Dante non è attuale, ma è più avanti di noi: dialoga oltre la storia, per ogni epoca.

Ed è proprio Dante, ancora una volta, a svelarci un singolare punto di vista sul presente, che gli occhi miopi dei contemporanei rischiano di non vedere. Stiamo parlando di un passaggio decisivo nel XXXIV canto dell’Inferno, quando Virgilio, non a caso simbolo della ragione umana, della saggezza, della guida lucida e rassicurante (benché in diversi passaggi del viaggio ultramondano lo sorprendiamo, anche lui, combattuto da sentimenti “umani”, come la rabbia, l’abbattimento, una specie d’innervosito disappunto), ormai al compimento dell’esperienza dei gironi Malebolge e dell’ultima zona della Giudecca (giacché «tutto avem veduto»), invita Dante a farsi coraggio, a riprendere il cammino «ascoso», ad avviarsi dentro la «natural burella», e quindi a sbucare nel Purgatorio, a «ritornar nel chiaro mondo», a riveder «le cose belle» e uscir a rimirar le stelle.

Cosa ci dice Dante in queste terzine esemplari?

Ormai pervenuti ad un nuovo tramonto, essendo passate ventiquattro ore da quando è iniziato quel sorprendente viaggio che durerà 7 giorni, durante la Pasqua del 1300 (siamo dunque al 9 aprile, singolare coincidenza con la festività odierna che cade, 720 anni dopo, proprio nella medesima settimana), i due pellegrini, Virgilio davanti e Dante dietro, si apprestano a tornare sulla terra, attraverso la «natural burella», una galleria scavata nella pietra da un ruscello, che consentirà loro di ammirare nuovamente le stelle del cielo.

Tuttavia, non facciamoci sfuggire un dettaglio fondamentale.

Dante insiste sul fatto che solo dopo l’esperienza nei gironi infernali, solo “arricchito” dalla conoscenza del dolore e dalla visione delle tremende punizioni di cui il Basso inferno è un emblema indimenticabile, scolpito per sempre nei suoi e nostri occhi (dove i diavoli Malebranche torturano i dannati, in una schermaglia che non di rado assume toni comico-burleschi, plastici, cromaticamente realistici, fra menzogne, beffe, urla, sberleffi, ingiurie), solo dopo il contatto con quella dimensione, egli potrà ammirare la luce delle stelle, dove l’accento sul «riveder» (con cui si chiude la cantica) sottintende proprio il piacere nuovo e profondo, e quindi catartico e risolutivo, che si prova al cospetto di un fenomeno, come le stelle, che prima del dolore egli non sapeva apprezzare e dava per scontato, e di cui solo adesso comprende la bellezza.

Come dire che anche il sacrificio, la pena, la sofferenza, forse ancor più che necessarie, possono diventare addirittura meravigliose, come la gioia e il godimento, nel momento in cui ci aiutano ad una conoscenza del mondo, ad una riflessione sulla complessità del reale.

Il magistero di Dante è d’una evidenza commovente, partecipata, perché, senza mai scadere in stucchevoli moralismi e didascaliche prediche (laddove è il personaggio-Dante, lui stesso per primo, che si mette in gioco, il cosiddetto agens, che si muove sulla scena e attraversa una moltitudine di sentimenti vivi, dalla commiserazione all’indignazione, dalla pietas all’inaudita violenza), ci invita a guardare in faccia al male, ad attraversare le bolge infernali, a non temere l’esperienza della rinuncia.

Di questo mi sono interrogato in questi giorni.

E cioè se l’impressione di apparente ebbrezza, vacua e superficiale, al cospetto di una libertà sovrana e frettolosa, ma priva dell’esperienza della rinuncia, non rischia di farmi perdere di vista il senso della semplicità.

Un tempo, dotato di un potere di scelta planetario (potere, voglio dire, di movimento, di acquisto, di frenetico dinamismo, di accumulo), non mi accorgevo del valore, microscopico ma denso, dei fenomeni che avevo a disposizione e di cui avevo perduto il godimento, frastornato da occasionali rumorosi effetti voluttuari, inutili, esuberanti, dal velo chiassoso dei bisogni indotti.

Parlo per me, s’intende, ma nutro il sospetto che se qualcosa nell’ordine del mondo si è guastato, insieme di abominevole e discreto come per il protagonista di Baffi di Carrère, deve valere come un segnale, una pista da seguire, un’indicazione a trovare nuove forme di convivenza, più sane, edificate sulle colonne della lentezza, del silenzio, dell’essenziale.

Solo così, avrebbe detto Dante, possiamo stimare la bellezza del luccichio delle stelle.

About pagani

Andrea Pagani insegna Letteratura e Storia, collabora con gli editori Principato e Zanichelli, tiene corsi di letteratura e scrittura creativa ad Università Aperta di Imola. E' autore di numerosi saggi e romanzi. Sul versante saggistico si è concentrato sulla storia e sulla letteratura del Cinquecento e del Novecento, mentre per la narrativa ha scritto in prevalenza romanzi di atmosfera gotico-simbolista. In veste di direttore artistico ha organizzato, per il Comune di Imola, il convegno su Calvino in occasione del Centenario. I suoi lavori su Joyce sono stati presentati ai Festival internazionali Bloomsday di Trieste e Pola.

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