Piazza di Garzoni

Leggerezza e gravità. La «monstruosa» ma ilare Piazza di Tomaso Garzoni

 saggio sulla Piazza di Tomaso Garzoni

apparso sulla rivista “Piè”, n. 5, anno 2005, ed. Mandragora, Imola 

Qualche anno fa, in un libro affascinante, e forse un po’ dimenticato, dal titolo Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, un intellettuale che seppe coniugare come pochi altri la ragione dell’illuminista alla forza dell’immaginazione, Leonardo Sciascia, poneva l’accento su due termini che da sempre hanno avuto un complicato rapporto nella storia della letteratura: la leggerezza e la gravità: o meglio, la sapienza di uno scrittore che sa come non «annoiare il lettore», anche se «greve, assai greve» è il tempo in cui egli scrive. Ed è sorprendente considerare come questi due valori, d’inesauribile modernità, apparentemente inconciliabili – il potere di una seducente affabulazione e il tentativo di aderire al severo rigore di una regola – abbiano conosciuto momenti difficili, ma anche le loro migliori riuscite, nelle epoche storiche dove più repressiva e talvolta sanguinaria si presentava l’ombra dell’autorità, ad esempio nell’epoca della Controriforma.

Con ogni probabilità, la carica di maggiore originalità e suggestione della Piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni, opera nata e cresciuta nella maturità tridentina, consiste proprio nelle forme in cui leggerezza e gravità, armonicamente, riescono a sposarsi. E tutto ciò stupisce ancor più se passiamo a considerare il profilo biografico dell’autore, che di quella stagione controriformistica doveva essere portatore ed artefice, quale «militante, intellettuale organico» (Paolo Cherchi) dell’ordine dei Canonici regolari lateranensi.

Non si tratta solo di una questione di “stile”, è chiaro. Non si tratta, cioè, solo di un linguaggio «non di rado vicino al parlato, quasi spontaneo», con una «gustosa venatura comica e grottesca di sapore popolare» (Pietro Petteruti Pellegrino): insomma di quel divertente e divertito registro con cui l’autore affronta anche gli argomenti più seri, per non dire pedanti, che altrove (s’intende: in coeve opere di analoga dimensione “monstruosa”, come i libri di Jean Tixer de Révisy, di Bartolomeo Chasseneux, di Leonardo Fioravanti, di Alessandro Citolini, di Vanoccio Biringucci), vengono proposti in un tono solenne, se non addirittura carico di retorica.

E non si tratta neppure solo (ma basterebbe già questo aspetto a destare stupore nel lettore di oggi e di ieri) del modo singolarissimo con cui Garzoni si accosta alla sua materia, alla vastità delle professioni del mondo, non seguendo una gerarchia consolidata o una qualche idea aristocratica della superiorità di alcuni su altri (tipo i mestieri intellettuali su quelli meccanici), ma piuttosto instaurando una spericolata democrazia, accogliendo davvero “tutte le professioni del mondo”, in qualche modo anticipando un metodo storiografico, per così dire di “storia dal basso”, che troverà il suo maturo approfondimento, un paio di secoli dopo, nei trattati di Ludovico Antonio Muratori.

Si tratta anche di altro, e cioè di un aspetto più complesso e complessivo dell’opera, che investe il suo medesimo impianto, la sua interna intelaiatura, il gioco di accostamenti e disposizioni dei centocinquantacinque discorsi.

Per capire di cosa stiamo parlando occorre riflettere su uno snodo problematico che attraversa tutto il Rinascimento e che lasciò, lungo la strada, non poche vittime: facciamo riferimento all’estetica di una coincidentia oppositurum, che, per fare solo qualche esempio, vide soccombere in ambito letterario un poeta come Torquato Tasso e, in ambito filosofico e scientifico, un teorico come Francesco Patrizi. Si parla di “soccombere”, ovviamente, nei termini della biografia dei personaggi, che pagarono con l’esperienza personale l’incapacità di «costruire una compositio fra gli opposti, mediare e contemperare le spinte contrastanti […]: una struttura elastica pronta a sostenere, grazie alla modulazione della gravitas, l’urto della discontinuità emozionale» (Andrea Battistini, Ezio Raimondi).

Ebbene, si direbbe proprio che sul piano della struttura narrativa Garzoni abbia vinto la scommessa: abbia cioè ritrovato quella gioia del narrare che apparteneva alla generazione precedente, o meglio alla poesia di un Ariosto, e che appunto prendeva le mosse da una suprema armonia della affabulazione. Tale “elasticità” della Piazza è resa non tanto dal soggetto del libro (che sappiamo in buona parte riscritto, se non prelevato e plagiato, da una molteplicità di similari trattati), ma appunto dalle forme di tale riproposizione, dallo stile e dal magico incastro delle tessere del mosaico.

Una breve analisi comparata può forse tornare utile al nostro discorso.

Se la fatica di conciliare unità e varietà, ordine e caos, regola e sentimento si risolve nella poesia del Tasso in una irresolubile piega drammatica, in una nervosa increspatura tragica, «in un continuo e spesso repentino mutare di luci e di ombre […], in un ritmo alterno di spinte e controspinte» (Lanfranco Caretti), al contrario nella Piazza il rapporto fra questi due poli, ordine e caos, si traduce in forme di ironica leggerezza e in strutture di seducente respiro. Il segreto, con ogni probabilità, sta proprio nel gioco degli accostamenti: nel campo di una singolare dispositio.

Ordine e disordine, dicevamo. Ad una prima lettura, di superficie, il lettore è colto da un piacevole senso di leggerezza: sedotto, allo stesso tempo, dal sapore comico e grottesco dello stile, dalla mole strepitosa di aneddoti e informazioni di storia sociale, e dal movimento libero, in apparenza fortuito, degli accostamenti, in un ritmo vagabondo ed arioso, insomma da una orditura anarchica e accidentale che richiama davvero la fluida armonia ariostesca.

Ma al di sotto di questo rigetto per ogni rigida tassonomia, ad una lettura più minuziosa, c’è chi ha saputo riconoscere la ricorrenza di un disegno, il senso di una giustapposizione, pensata e regolare, fra leggerezza e gravità: «la materia è dosata in modo da variare la lettura e concedere un respiro di ilarità quando il cumulo di dati e di argomenti nobili sta diventando greve, e introdurre una nota di serietà quando il discorso s’è tenuto per lungo tempo su un registro basso. Per fare un esempio, vediamo che la presenza dei grammatici o pedanti e dei formatori di pronostici risponde alla prima esigenza, bilanciando con elementi faceti discorsi impegnativi e paludati; mentre la presenza dei giudici o dei giardinieri risponde al bisogno opposto di correggere l’impressione, nata dal prolungato susseguirsi di mestieri bassi, che nella civitas garzoniana esistano soltanto occupazioni vili. Per questi aspetti la Piazza fa pensare all’organizzazione delle “selve”» (Paolo Cherchi).

È proprio questo sapiente dosaggio, questo ritmo alterno di toni e registri a creare un effetto complessivo di libertà e leggerezza, di affascinante dispersività: l’unico dosaggio, peraltro, che avrebbe consentito la facile leggibilità di una materia così “monstruosa” e impegnativa (e sul fiuto editoriale di Garzoni si è intrattenuto a lungo, e con brillanti risultati, il Cherchi).

Così che quanto è stato detto, in passato, per l’orditura compositiva dell’Orlando furioso sembra valere anche per quella della Piazza: «Questa virtù, veramente eccezionale nell’Ariosto, di concedersi sinceramente ogni volta alla verità di un affetto, di una passione, e quindi di riprendersi al momento giusto per rivolgersi ad altro affetto, ad altra passione, spiega la particolare natura della narrativa ariostesca fondata essenzialmente nella fluidità dinamica dell’azione, e quindi sulla velocità dei trapassi e sui mutamenti improvvisi di situazione» (Lanfranco Caretti).

In altri termini, il segreto della mirabile armonia della Piazza consiste proprio nella capacità di orchestrare fra loro argomenti così diversi, suggestioni e temi così enciclopedici, grazie al «cervello universale» del suo autore.

E tutto ciò, s’intende, senza fratture o discrepanze con l’autorità costituita, senza rompere l’equilibrio con committenti o istituzioni, giacché, non dimentichiamolo, «Garzoni è un uomo del suo tempo, che interpreta e domina perfettamente i fenomeni culturali attraverso un ventaglio amplissimo di conoscenze non banali» (Beatrice Collina): è un uomo che sa come muoversi nelle logiche difficili, negli equilibri incerti, nelle gravose circostanze dell’età della Controriforma – e il parallelo con Ariosto riesce, anche in questo caso, efficace, per motivi, si direbbe, di carattere e sensibilità. Lo si coglie dalla opportuna dedicatoria ad Alfonso II, dagli intenti morali del libro (mostrare come in ogni professione l’uomo possa perseguire sia vizi che virtù) e dalla stessa adesione ad una politica clericale di proselitismo nella rivalutazione delle arti meccaniche ovvero nella vicinanza con le classi medie e basse.

Qualche anno fa un altro «cervello universale» ed illuminato avvertiva l’importanza della leggerezza ed intitolava proprio così una delle sue lezioni o proposte per il millennio a venire: stiamo parlando, s’intende, di Italo Calvino, che nelle sue Lezioni americane sottolineava il valore della «leggerezza come reazione al peso del vivere» e precisava che la vivacità del linguaggio e delle immagini di un’opera non comporta, certo, superficialità, e che anzi esiste una «leggerezza pensosa [che] può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».

C’è da domandarsi, ma a questo punto non dovrebbero esserci molti dubbi, se anche il «monstruoso» lavoro di Garzoni rappresenti un modernissimo (e, dati i tempi, davvero geniale) esempio di questa convergenza fra pensosità e leggerezza, fra unità e varietà, fra lieve ilarità e grave profondità.

Di certo, l’effetto che produce, ad un lettore attento, ma anche a quello più dilettante ed improvvisato, è quello di un’affascinante irresistibile affabulazione.

Bibliografia

Per La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Garzoni si fa riferimento all’edizione in 2 volumi a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, Torino, Einaudi, 1996. Le citazioni del saggio sono tratte da: Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988. Lanfranco Caretti Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1961. Paolo Cherchi Invito alla lettura della “Piazza” e Beatrice Collina Un “cervello universale”, in Tomaso Garzoni La piazza universale di tutte le professioni del mondo, cit. Pietro Petteruti Pellegrino, La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Dizionario delle opere, vol. 2, Torino, Einaudi, 2000. Leonardo Sciascia, Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, Torino, Einaudi, 1977.