Einstein e le biciclette

 

 Come smettere di essere biciclette

di Andrea Pagani

(saggio introduttivo al libro di Gabriella D’Amico, La Passione e le idee, Suggestioni coreografiche del Gruppo Teatro Danza Tangram, Foggia, 2011)

Uno degli intellettuali più singolari del nostro tempo, che ha saputo coniugare con insolita stravaganza impegno filosofico ad attività imprenditoriale e addirittura televisiva, Alain de Botton, sembra aver concentrato gran parte delle sue energie a dimostrare che la cultura (la letteratura, l’arte, la musica) conserva uno straordinario potere consolatorio: scampa dalla superficialità, ci salva dalla inevitabile spirale della sofferenza, ci permette di leggere il mondo con un occhio più consapevole. In una parola: ci aiuta a vivere meglio.

Proprio così: magari la vita fosse solo gioia, sorrisi, tripudi. La vita è anche – verrebbe da dire soprattutto – malinconia, delusione, lacrime. E allora – ci suggerisce lo scrittore svizzero – corrono in nostro aiuto le pagine che abbiamo letto, le musiche che abbiamo ascoltato, i quadri che abbiamo contemplato, gli spettacoli di danza e teatro a cui abbiamo assistito. Insomma: la cultura.

Di certo suona stonato di questi tempi (tempi dove tutto deve essere confezionato nella veste edulcorata di risate sguaiate e di euforie concitate, dove il frastuono copre il silenzio, dove tutti diventiamo un po’ come biciclette, per dirla alla Einstein: per trovare l’equilibrio dobbiamo correre e correre, senza trovare mai un punto di appoggio).

Suona stonato, è vero, ma è così: il dolore, prima o poi, arriva nella vita di ognuno e allora, invece di inseguire a tutti i costi la felicità, l’eccitazione, la frenesia cieca di un momento di orgasmo, varrebbe la pena che imparassimo a sopportare il dolore, ad affrontare le sconfitte, a irrobustirci di fronte alle frustrazioni.

Cos’ha a che vedere questo discorso col libro di Gabriella D’Amico che tenete fra le mani? Un libro che parla di danza, di coreografia, di un’arte tanto importante quanto misconosciuta come il Tangram?

Molto: ha molto a che vedere.

Perché, alla resa dei conti, la scrittrice, forse neppure senza rendersene conto, attraverso il racconto della sua esperienza di coreografa, di maestra di danza, di donna, ci vuol suggerire proprio questo: ci testimonia che se non ci fosse stata la cultura nella sua vita (o meglio, se non ci fosse la cultura nella vita di ogni uomo e di ogni donna) non ci sarebbe bellezza, non esisterebbe in noi la forza di affrontare gli innumerevoli inevitabili scogli che la navigazione del mondo comporta, poiché la bellezza, per dirla alla Stevenson, quando è vera bellezza non è mai fine a se stessa, ma “sorprende, affascina, racconta favole alla nostra fantasia”.

E come fa il libro di Gabriella D’Amico a dirci questo?

Non ci si mette molto a scoprirlo.

Basta leggere con attenzione, dietro le righe, fin dalle prime pagine questa storia originale, che non sappiamo se definire romanzo, saggio, autobiografia, manuale di danza, riflessione filosofica: si respira da subito un profumo particolare, nitido come il rintocco di una campana in una notte di luna piena: il piacere irresistibile e contagioso – una specie di malattia – che l’autrice prova per la cultura.

E non solo per la cultura della professione che lei frequenta (ossia la danza e il teatro), ma per la cultura nel senso più esteso e profondo della parola: dalla letteratura al cinema, dalla musica alla pittura.

Il libro di Gabriella D’Amico è un luogo che, ovunque cammini e posi le gambe, ti sussurra l’amore per la cultura, un amore onnivoro e assetato: le citazioni letterarie che aprono ogni capitolo (che armoniosamente si sposano con il contenuto del capitolo stesso), i riferimenti ai classici del cinema e della letteratura (Calvino, Queneau, Il Mago di Oz), le allusioni ad opere pittoriche e teatrali: tutto in questo libro, come lo scenario di un dipinto che ad ogni angolo diverso ti offre immagini inedite, rimanda alla palpitante emozione che prova l’autrice per l’arte.

Ma c’è di più.

C’è qualcosa che vive in stretta intimità con l’arte.

C’è l’amore per le tradizioni, le radici, gli affetti: quando prende in mano la penna – o meglio digita la tastiera di un computer, ma fa poca differenza – l’autrice non riesce a nascondere i legami profondi che l’hanno formata, assieme al Tangram, in quasi vent’anni di attività: le figlie, il fratello, le amiche, i colleghi, la famiglia.

Così, senza cedere a lacrimevoli patetismi o a dilettantistiche piaggerie, ma tenendo sempre il livello della scrittura su un tono colto e intelligente, Gabriella D’Amico sembra insegnarci un’altra cosa: che la cultura ha reso più ricchi, veri e duraturi i propri rapporti umani, ha dato un senso profondo, mai superficiale, alle persone che sono gravitate attorno a lei.

È un po’ come parafrasare ciò che disse Josè Saramago: “Quello che vediamo degli alberi è soltanto una parte, importante, senza dubbio, ma che non sarebbe nulla senza le radici”.

E di questi tempi, dove tutti corrono per trovare un proprio equilibrio come le biciclette, chi ci ricorda che l’equilibrio vero si trova nei punti fermi, nella stabilità, nelle radici, ebbene, è un suggerimento da tenere prezioso come un gioiello.