Capriole di comico
Libro delle anime, anno 1701
Ed. Pendragon, Bologna, 2004
Postfazione di WuMing 2
La storia
Bologna. Gennaio 1682. Via de’ Vitali. Palazzo Fantuzzi. Il fondo della notte. In una stanza segreta nasce un figlio scomodo, frutto della relazione clandestina fra il nobile avvocato, conte Cesare Miti, e una donna plebea di origine veneziana, Giovanna Fabri. Al parto assiste l’intera famiglia aristocratica: l’avvocato concistoriale e i due fratelli, il conte imolese Gabriele e l’abate Antonio Maria. Il neonato, che viene battezzato col nome di Pompilio, viene affidato inizialmente alle cure di una balia e poi, all’età di due anni, alla famiglia di un calzolaio, in via Braina de’ Santi. In quella casa rimarrà fino al 1700, fino alla morte dell’avvocato, quando deciderà di dedicarsi alla commedia dell’arte e intenterà un processo contro la famiglia Miti che durerà fino al 1728.
E di Giovanna Fabri, la madre del figlio “bastardo”?
La notizia ufficiale è che sia morta dopo il parto, ma il giovane Pompilio, un po’ per caso, un po’ d’istinto, conduce un’indagine che si fa sempre più complicata e che lo porterà alla rivelazione di un inquietante mistero.
Un romanzo che prende spunto da una storia vera, da una meticolosa ricostruzione degli ambienti popolari e di quelli patrizi della Bologna del XVII secolo, per poi confluire nel regno della fantasia e affrontare così alcuni temi universali: il conflitto fra umili e potenti, la ricerca di un’identità, il rapporto fra ragione e sentimenti.
Postfazione di WuMing 2 (www.wumingfoundation.com)
Negli archivi d’Italia, sepolte sotto il peso dei faldoni, centinaia di storie non attendono altro che di essere raccontate. Il probelma principale- sulla falsariga del noto adagio dei denti e del pane – è che il più delle volte ai narratori di professione manca il know how dell’archivista, mentre a quest’ultimo manca il tempo, lo spazio mentale per lasciarsi andare al piacere del racconto. Detto altrimenti, le storie non sono che asce di guerra da disseppellire: per farne buon uso occorre saperle scavare e restaurare, saperle maneggiare con gesti fluidi, conoscere il campo di battaglia, ovvero quando e dove sguainarle. Chi possiede soltanto la prima capacità, è condannato a produrre storie-da-rigattiere, vicende ricostruite magari alla perfezione, ma buone soltanto da essere ammucchiate in vetrina insieme al resto della merce.
Chi invece padroneggia l’arte marziale, è in grado di scegliere i reperti più interessanti, senza farsi guidare dal caso o dalla fortuna, e di allestire ottime storie-da-esibizione, simili a certe rievocazioni storiche, che coinvolgono lo spettatore per il tempo della loro durata, restitruendolo poi senza colpo ferire al flusso quotidiano dell’esistenza.
Soltanto chi ha dimestichezza con tutti e tre i saperi in questione, può dar vita a una vicenda che metta insieme la precisione del restauro, la scelta non casuale dei temi, la capacità di muovere i personaggi sulla scena e di raccontare una storia che sappia parlare la lingua della contemporaneità, e dirci – attraverso il filtro degli anni – qualcosa sul nostro presente e sui suoi conflitti.
In questo romanzo, Andrea Pagani dimostra, in maniera semplice e diretta, di saper fare tutto questo. Ecco perché, in maniera altrettanto semplice, Capriole di comico mi ha colpito fin dalla prima lettura, facendomi apprezzare ad ogni pagina le mosse e le astuzie di una prova così riuscita.
L’ambientazione è ricostruita nei particolari, senza manierismi e compiacimenti, col solo scopo di trascinare il lettore sulle strade, insieme ai protagonisti della vicenda. La storia non è semplicemente ‘riportata’, trasposta in linguaggio narrativo piuttosto che cronachistico: il tutto risulta filtrato da un intreccio coinvolgente, appassionato e ricco di suspence. Infine – ciò che forse è più importante – l’intero racconto, e le riflessioni del suo protagonista, ci parlano di soprusi, intrighi, lotte e poteri certo non dissimili, fatte le dovute proporzioni, da quelli più attuali e opprimenti, finendo per ricalcare schemi sempre validi, e in particolare, la maniera tutta italica di costruire il privilegio.
Detto di queste tre capacità, rimane un altro aspetto che è importante sottolineare. Non sempre gli archivi sono generosi. Molto spesso il loro contributo alla narrazione è fatto di reticenze e di silenzi, amnesie e coni d’ombra. E quando gli archivi tacciono, quando le ipotesi storiografiche non possono spingersi oltre, viene il momento di mettersi a raccontare, di togliere le ruotine alla bicicletta e pedalare da soli. Sembrerà strano, dopo quanto affermato fin qui, ma forse la documentazione ideale per un narratore è proprio quella che non dice tutto, che lascia spazio all’invenzione, che offre le coordinate per traguardare il percorso, ma non disegna l’intero tragitto.
La vicenda ‘scovata’ da Pagani all’archivio di Imola risponde bene anche a questo requisito, oltre al fatto che l’autore ha saputo anche conquistarseli, i suoi spazi, nelle pieghe della parte più storicamente documentata. Da un lato ci sono personaggi che la Storia ci ha consegnato appena abbozzati – come il padre adottivo del protagonista o i comici della compagnia – e che questa storia riempie di significati. Dall’altra c’è l’intreccio di sapore gotico che Pagani ha intessuto per andare incontro al suo finale, dimostrando di saper intervenire sui buchi della vicenda con un rammendo che non la rende soltanto più compatta, ma anche più avvincente. Certo, sulla forma e il colore di questi ricami si potrebbe discutere a lungo, e non è questa la sede per farlo – ogni lettore, sulla base delle sue idiosincrasie, valuterà se il finale lo soddisfa oppure no – quel che è certo, e che nessuno potrà negare, è che la storia fila dall’inizio alla fine, restituendo intatto il sapore dell’epoca, senza con questo chiudersi in un’operazione museale, ma anzi aprendo le porte alle inquietudini del presente.
In un romanzo del genere, non saprei davvero cos’altro desiderare.
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