Il lavoro come professione nella Piazza universale
di Tommaso Garzoni (a cura di Italo Michele Battafrano e Antonio Castronuovo)
Bononia University Press, Bologna, 2009
Il fremito della libertà
I laboratori del cuoio e delle pelli nella Piazza di Garzoni,
fra mestieri artigiani e discussioni filosofiche
di Andrea Pagani
Esiste una singolare, quasi versatile, commistione di realtà e astrattezza, di quotidiano e simbolico nella Piazza di Tomaso Garzoni: nel modo di trattare le varie professioni del mondo, in un’ambizione “monstruosa” ed enciclopedica, l’autore si lascia sedurre (e ci seduce) da uno sguardo a metà strada fra l’esercizio concreto del mestiere e una sorta di valenza universale e allegorica.
Basti pensare, ad esempio, ai frequenti riferimenti alle fonti classiche, “creando un senso di disorientamento in chi crede di trovarsi nella piazza di Bagnacavallo nell’anno 1585” e subito dopo scoprendosi immerso nei libri di Svetonio, Marziale, Seneca, Cicerone, Senofonte, per non dire in un’autentica profusione di citazioni bibliche, soprattutto del Vecchio Testamento.
Con ogni probabilità, sono proprio i mestieri più umili, i professionisti del cuoio, i guantari e i ballonari, i maestri di corami, i pellicciari e i balleri, ad essere gli oggetti privilegiati di questo metodo di trattazione, proprio perché “l’inclusione di tutte le professioni è da considerarsi una novità assoluta” e proprio perché la Piazza si propone come una “metafora del mondo e dell’intera civitas umanistica [accettando] come soggetto proprio non solo i lavori nobili, legati a un sapere acquisito in biblioteca o in bottega, ma anche i lavori più bassi e vili, non esclusi quelli del boia e dei bravi, né quelli dei ladri e degli assassini” .
Senza dubbio Tomaso Garzoni, nei confronti di queste attività, esercita di continuo una duplice prospettiva critica: da un lato, si addentra nel dettaglio dei loro modi di lavorazione, non sottraendosi alla disamina anche degli aspetti più tecnici e particolari del loro mestiere (il che ci offre, peraltro, un affresco assolutamente unico e prezioso della società del lavoro del Rinascimento, come nessun trattato aveva fatto fino ad allora e probabilmente anche nei secoli a venire); dall’altro lato, si addentra in una specie di riflessione, a metà strada fra il filosofico e l’erudito, sulla dimensione simbolica, per non dire mitologica, di questi laboratori professionali, che prendono ben presto la valenza di laboratori alchemici se non addirittura permeati di una vaga sacralità pagana.
Quale significato riveste questo punto di vista di Garzoni?
O meglio: come procede, nel dettaglio, il metodo di lavoro dell’autore per arrivare a nobilitare quei mestieri di un abito religioso?
Entriamo nello specifico delle argomentazioni garzoniane.
A fronte di pagine in cui l’autore della Piazza annovera alcune professioni umili – come quelle dei conciatori di pelle - fra le professioni “ignobili” (secondo il sottotitolo della prima edizione dell’opera), perché fetide, sporche e puzzolenti, pericolosi fattori di contaminazione dell’ambiente e causa della diffusione della peste, troviamo pagine in cui, assieme alla doviziosa perizia di informazioni sulla lavorazione del cuoio e della pelle, si apre una riflessione sulle pratiche alchemiche e sulle implicazioni sacre di tali lavorazioni, esorcizzandone così i caratteri ignobili, in forme del tutto originali.
Se è vero, infatti, che il “tema del lavoro pertinente ai vari mestieri e professioni” aveva portato nella civiltà umanistica ad una implicita elevazione dei “ceti operai che lavorano vicino agli artisti” , è difficile trovare un altro trattato come quello di Garzoni che investiga con tale grandiosità di prospettive tutte le possibili specializzazioni e manifestazioni del lavoro, con un intendimento di nobilitazione quasi sacrale delle professioni più umili.
Lo sviluppo del ragionamento di Garzoni non incorre certo in contraddizioni, ma anzi procede con una logica ferrea e coerente.
La sporcizia di tali mestieri e il suo nocivo effetto inquinante, in effetti, sono strettamente legati ad una serie di pratiche alchemiche, a metà strada fra il pagano e il mistico, che ne fanno agli occhi di Garzoni professioni di ascendenza quasi religiosa, se non addirittura arricchite di componenti sacre, politiche ed eversive in margine alle nascenti istanze riformistiche rinascimentali.
Proviamo a seguire, passo passo, il ragionamento di Garzoni, proprio così come ce lo registra la sua mente lucida e stimolante.
È stato osservato efficacemente che, a proposito dei mestieri che trattano col cuoio, Garzoni mostra un complesso di preoccupazioni che “oggi definiremo ecologiche (la peste, l’aria “cattiva”, l’acqua “ammorbata”)”, trovando così conferma “in una vasta letteratura di denuncia della degradazione urbana” , su cui già si erano soffermate pagine brillanti di Piero Camporesi. Lo studioso, con un originale metodo critico, capace di coniugare la storia delle tradizioni popolari, della civiltà materiale e delle sue proiezioni simboliche, entra nel cosmo formicolante di laboriosi artieri, osservando in particolare “l’inferno dei mestieri ignobili” e presentandoci lo sconvolgente scenario di un Cinquecento come una “triste cloaca”, dall’aria e dall’ambiente malsano:
Assolutamente sconsigliabile l’aria della notte, non solo insidiosa e nociva all’equilibrio umorale fissato dalla natura, ma perturbatrice anche dell’ordine morale e del buon governo sociale. L’andar di notte non soltanto conduceva a “varie e diverse infirmità” ma preparava “scandali, inconvenienti e pericoli”: “e per tanto alcuno savio disse, la notte esser detta a nocendo, perch’ella nuoce, e le tenebre, a tenendo, perché tengono gli occhi che non vedono” (Polydori Ripae Tractatus de nocturno tempore). […] I morbi occulti, gli effluvi e le esalazioni venefiche corrompevano, confondevano e intorbidavano il purissimo corpo dell’etere .
E d’altro canto, a proposito dell’inquinamento dell’aria, fra i contemporanei di Garzoni, già nel 1580 il Costeo rilevava nella Disputatio quod ex arte coriariorum infici aer possit et pestis procreari, che i grumi di sangue che la concia non riesce ad eliminare, decomponendosi, contaminano l’ambiente.
Ebbene, attorno a tali lavorazioni fetide e puzzolenti, che rischiavano di suscitare l’imbarazzo e il disgusto del tempo, allo scopo di contenere se non addirittura debellare l’alto tasso di inquinamento, sorge tutta una serie di laboratori alchemici, tesi a coprire i nauseabondi odori della concia.
A tal proposito, Garzoni si sofferma, con l’abituale puntiglio di informazioni, sulla sofisticazione delle nuove lavorazioni dei pellicciari e dei cuoiai, facendo notare che le pelli conciate da tali professionisti, per il valore dei profumi e dei prodotti utilizzati, sono commissionati da importanti signori del tempo, motivo di decoro e ornamento, per i quali nessun signore si è mai lamentato:
il modo d’accomodarle, sì come è diverso nell’isperienze, così è notabile grandemente, perché in color di rubbia v’interviene di vin bianco, sal comune, scorze di gambari, e altre fantasie; in color verde v’intervengono grani di spin cervino, allume di rocca, cenere di sterco di pecora, con alcune altre particolarità; in color rosso v’interviene il verzino, la galla e la lessia dolce; in colore azurro v’interviene la scorza dell’uva negra, la polvere d’indico, e alcune altre circonstanze…
e di seguito:
Hanno poi cotesti pelliciari non poca lode dal pregio e valore che costano le pelli da loro perfettamente acconcie e accomodate, perché le pelli di conigli, di foine, cervine, le volpi, i lupi cervieri, i martori, i vari, i dossi, i zibellini mantengono l’arte in credito e riputazione appresso a’ gentiluomini e signori .
Ed è proprio tale pregio nella lavorazione – attorno a cui l’autore si dilunga anche per gli altri mestieri affini ovvero “compagni” dei cuoiai – che conferisce la certificazione di nobiltà, assieme a tutta una serie di accertamenti sulle fonti antiche, addirittura bibliche, circa l’antichità di queste professioni: “I pelliciari […] si vantano dell’istesso argomento di nobiltà detto di sopra, cioè dell’antichità” .
In altri termini: la valutazione dell’alto grado di nobiltà dei mestieri che trattano col cuoio e con la pelle, che per l’appunto le emancipa da una sorta di degradazione per la sporcizia insita nella loro medesima produzione, sembra essere legata ad un duplice ordine di qualità: l’antichità del lavoro e le innovative pratiche di conciatura e profumeria, atte a eliminare i cattivi odori:
[…] la principal fatica de’ guantari consiste nelle concie che danno ai guanti, ove chi meglio sa acconciarli e profumarli (benché sia arte più presto da profumerie) tocca più soldi ancora conseguentemente. E queste concie si fanno attorno ai guanti di Spagna con oglio di gelsomini e con ambra, lavandoli prima bene con un poco di malvasia, e adoprando anco grassetto odorifero ad ongergli: overo con polvere di Cipro, con pomata, con oglio di cedro, con oglio di belluino e con alcuni grani di muschio, con cinnamomo eletto, garofoli, storace, noci moscate, oglio di cetrone, e zibretto, overo con acqua di fiori di naranzo e di rose moscate, overo con sevetto di becco composto con oglio di gelsomini, di martella, di cetroni, canfora e biacca, overo con oglio d’amandole dolci, radici di giglio bianco, acqua rosa, oglio di moschette, oglio di spicco, ambracane, oglio di storace e cose simili .
Si apre così un complesso e avvincente sentiero di argomentazioni all’interno della Piazza, che investe le discipline alchemiche, filosofiche e sacre, poiché quei laboratori di concia delle pelli non si limitano soltanto a sede di mere lavorazioni artigianali ma diventano luoghi di sperimentazioni chimiche e di attività mistiche, veri e propri centri di dibattito filosofico e religioso.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che i dibattiti religiosi nel Cinquecento si presentano fervidi ed intensi, in margine ad una vera e propria fioritura di trattati, operette divulgative, scritti vari di carattere religioso, astrologico-profetico, calendaristico-astronomico, una “copiosa letteratura di predicazione penitenziale, di devozione, parenesi, preghiera […], un numero notevole di scritti ascetici, mistici o testi di pietà anche in rima o in prosa italiana […], testimonianze di fede e di angoscia, di religiosità tradizionale di poveretti e di donnette, gente che era o di fatto, per situazione sociale, o volontariamente, per elezione, per voto, umile e staccata dal mondo” : insomma un molteplice e confuso materiale di testi a rischio di condanna di eresia e di certo non irreggimentato nei binari dei dogmi e della dottrina tradizionali.
Silvana Seidel Menchi ci avvia in questo suggestivo sentiero interpretativo, documentando, ad esempio, che in alcune botteghe di sellai e di tessitori di velluto a Modena, a metà del Cinquecento, si discuteva di temi religiosi, si aveva sentore della dottrina del giudizio universale e, in ogni caso, si dibatteva su un vasto raggio di argomenti attorno ai valori della libertà di pensiero e di vita dell’uomo .
Ci stiamo muovendo, vale la pena ricordarlo, in margine alla impetuosa ventata di rinnovamento del movimento riformistico, da Lutero a Erasmo, di cui tali laboratori di professioni artigianali sembrano essere singolari centri gravitazionali.
Ci sarebbe da domandarsi, a questo punto, come potevano accedere alle idee di Erasmo tessitori, carbonari, fabbri, tornitori, magnani, sellai, maestri del cuoio, e soprattutto a quale snodo di riflessioni pervenivano tali dibattiti sulle premesse di un fondamento evangelico.
Ancora una volta il lavoro della Seidel Menchi ci apre suggestivi spunti di interpretazione, nel momento in cui dimostra che importanti veicoli di circolazione delle idee erasmiane non erano soltanto un gruppo di libri scritti sotto l’influsso del riformatore e che potevano essere considerati emanazioni del suo pensiero e non soltanto, ovviamente, i libri medesimi di Erasmo, ma anche e soprattutto – data la natura popolare dei luoghi in cui avveniva tale circolazione – la tradizione orale:
vi erano formule erasmiane che si emancipavano dal loro contesto e circolavano in modo autonomo. A metterle in circolazione erano predicatori o propagandisti religiosi, che ben ne conoscevano la fonte. Sennonché, una volta messe in circolazione, quelle formule perdevano la memoria della loro origine e, insieme ad essa, l’impronta sfumata e moderata che Erasmo aveva dato loro. Coloro che le usavano, e che così contribuivano alla loro ulteriore diffusione, non sapevano di citare Erasmo .
Si potrebbe dire così che i laboratori artigianali di cui tanto minuziosamente ci informa Garzoni e che conquistano l’aurea di nobiltà grazie all’avanguardia delle loro lavorazioni sperimentali, a metà strada fra alchimia e misticismo, assursero nel corso del Cinquecento, in piena congerie rinascimentale, a centri nevralgici di discussioni che dalla libera citazione religiosa erasmiana dirottavano poi su temi sociali, filosofici e politici assai più vasti: dalla libertà di alimentazione, alla necessità di vivere a proprio modo, fino ad una più radicale e energica radicalizzazione dell’idea di libertà che investe la condizione stessa dell’essere umano.
In questo generalizzato fervore riformistico, benché “l’esperienza mistica fondamentale verrà risolta in modi e forme differenti, da persona a persona, a seconda delle situazioni particolari e delle concezioni generali, delle cognizioni dottrinali, filosofiche o meno, elaborate o sistematicamente fondate in un modo o nell’altro, più o meno coerenti, definite, articolate o inserite in tradizioni o strutture comunemente accettate”, resta comune e predominante un comune turbamento, un “elemento appassionato e sentimentale, permeato di reazioni psicologiche soggettive, che certamente ha precedenti lontani, ma ora sembra (si ricordi per contrasto la lieta affettuosità di santa Caterina Vigri da Bologna, nel secolo precedente) accentuarsi e incupirsi”, che si troverà presente “tanto fra i cosiddetti ortodossi quanto fra i cosiddetti eretici” e che si risolverà “in un modo di esprimersi intimo e diretto, di esperienza personale” .
In altre parole, alla base di tutti i movimenti eretici del Rinascimento riformato vi era essenzialmente una comune urgenza umana ed esistenziale di libertà (e di questo ne furono subito consapevoli i tribunali dell’Inquisizione), secondo cui solo i comandamenti formulati nelle Sacre Scritture sono davvero vincolanti per i cristiani: “i precetti della Chiesa, invece, per quanto non fossero rigettati come empi o superstiziosi, non avevano alcuna forza vincolante” .
E nel panorama dell’eresia rinascimentale, senza dubbio, le pratiche alchemiche occupavano un ruolo assai interessante, poiché non si trattava di forme di trasgressione provenienti dal mondo della devianza o dalla emarginazione, ma spesso da classi integrate nella società, se non addirittura da rappresentanti della civiltà colta e intellettuale.
Un recente studio di Riccardo Frattini , in tal senso, esamina come il fenomeno dell’alchimia nel Rinascimento, benché fosse sottoposto alla medesima sorte di repressione da parte del potere costituito, si denotasse in realtà per caratterizzare strati sociali e professioni fondamentali per il tessuto economico del tempo: se la stregoneria, ad esempio, era un fenomeno tipico di donne incolte ed umili, i maghi e gli alchimisti erano al contrario uomini, letterati e membri delle classi dominanti; e ancora, se la stregoneria era ricollegata al culto del diavolo, la magia naturale e l’alchimia venivano invece considerate la via illuminata per conseguire la piena conoscenza di Dio.
Vale la pena ricordare infatti che, nel contesto delle idee del Rinascimento, la pratica alchemica, antica disciplina protoscientifica che combina elementi di chimica, fisica, astrologia, arte, semiotica, metallurgia, medicina, misticismo e religione, considerata da molti un’attività che precorre la chimica moderna, si proponeva alcuni ambiziosi obiettivi non necessariamente legati all’attività medica ma assai più vicini al mondo della filosofia e della mistica (da qui, appunto, la sua aurea sospetta di eresia): obiettivi come conquistare l’onniscienza; creare la panacea universale, per curare tutte le malattie del mondo e per generare e prolungare indefinitamente la vita; trasmutare i metalli in oro o argento, dove la pietra filosofale era la chiave per realizzare questi obiettivi.
Ecco perché non è possibile delimitare una disciplina dall’altra nel Cinquecento: non è possibile tracciare precise linee di demarcazione fra il complesso delle scienze strettamente dette (astronomia, scienze naturali, medicina) e la riflessione speculativa e magico-astrologica.
Non a caso, l’alchimia, oltre ad essere una disciplina fisica e chimica, implicava un’esperienza di crescita ed un processo di liberazione e di salvezza dell’artefice dell’esperimento, sviluppava un complesso di procedimenti volti a ottenere la trasmutazione dei minerai allo scopo da ricavare metalli preziosi o di purificarne le qualità così da presentarsi come una disciplina spirituale, a tal punto da venir sacralizzata e ricondotta ad un tipo di conoscenza metafisica e filosofica, assumendo connotati mistici e soteriologici, cosicché i processi e i simboli alchemici possiedono spesso un significato interiore relativo allo sviluppo spirituale in connessione con quello prettamente materiale della trasformazione fisica.
Tomaso Garzoni, di certo, aveva ben presente questo articolato complesso di situazioni e verrebbe da pensare che a questo scopo, con ogni probabilità, l’autore sottolinea in diversi passaggi l’importanza sacrale dei paramenti che escono dai laboratori alchemici dei pellicciai e dei cuoiai, sulla scorta di una colta tradizione biblica, che Garzoni non manca di documentare con rigorose precise citazioni:
Ma potranno i pellicciari gloriarsi anco d’un altro punto: che il gran patriarca Giacob, quando ricevette la benedizione dal suo padre Isaac, l’acquistò mediante le pelli di capretto pertinenti al lor mestieri, le quali involse prudentemente alle braccia, per somigliarsi a Esaù suo fratello, uomo piloso. Né fondamento di nobiltà sprezzabile sarà anco quell’altro: che antichissimamente le pelli sono state di decoro e ornamento in molte cose nelle quali si sono usate. Però nell’Essodo si legge al capitolo vigesimo sesto che il tetto del tabernacolo santo fu di pelle di capra misteriosamente tutto coperto. E ne’ Numeri al quarto si ritrova scritto che l’arca del Signore, così veneranda, andava circondata di pelli iacintine molto nobili e preziose. Quando anco la sposa nella Cantica volse fare una vaga comparazione della bellezza sua, comparolla alle pelli del re Salomone, in quelle parole: “Nigra sum sed formosa sicut pellis Salomonis, sicut tabernacula Cedar”. Dalle quali cose tutte s’argumenta la nobiltà dell’arte de’ pellicciari .
In definitiva, l’importanza dei centri alchemici, che fin dagli inizi dell’era riformistica avevano rivestito una insidiosa componente eretica e che si erano vestiti di una vibrante carica protestatoria, non concerneva solo l’aspetto squisitamente religioso ed evangelico, ma si allargava ad una riflessione assai più ampia e complessa sull’esistenza dell’uomo, in un anelito di libertà e di emancipazione, che andava dalla gestione della quotidianità, al vivere sociale fino alle esigenze più intime e profonde dell’esistenza.
Ecco perché le idee di Erasmo, molto di più di quelle di Lutero, manipolate nei laboratori alchemici dei maestri del cuoio e delle pelli, si ispessiscono di valori culturali, politici e filosofici, che con ogni probabilità, in origine, nelle intenzioni dello stesso riformatore, non volevano avere.
Ed ecco perché, ancora una volta, la Piazza di Tomaso Garzoni non si limita ad un mero catalogo di mestieri, ad una sterile e polverosa – benché minuziosa – disamina di professioni, ad un’operazione erudita e documentaria, didascalica e compilativa, ma è un’opera nutrita di un fermento nuovo e diverso, mostra un’anima etica e moralizzatrice, raggiunge gli strati sociali più bassi come nessun altro libro del genere aveva fatto fino a quel tempo per poi penetrarne ed elevarne il significato intrinseco, salvandoli per sempre dall’oscurità in cui certamente la storia li avrebbe immersi.