La metafisica a Ferrara

Ferrara al rintocco del Novecento
in “Cartapesta”, n. 9, ottobre-dicembre 2003, Imola

Un luogo non è soltanto uno spazio fisico. Non è solo superficie, materia, epidermide. C’è qualcosa di molto più profondo sotto la buccia delle cose che ci circondano. Dietro a un oggetto, a un luogo, a una città si nasconde qualcosa che riguarda, da vicino, la nostra identità. L’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, in cui abbiamo consumato i nostri giochi infantili, in cui abbiamo avuto le nostre storie d’amore, le case, le piazze, i vicoli, è come se s’impregnassero di una sostanza particolare, che in qualche modo rispecchia la nostra sensibilità, il nostro carattere, il nostro modo di percepire il mondo.
Un luogo. Un’identità. Una storia.
Non troppo diversamente – è ovvio – capita in letteratura.
Un libro sedimenta (e lascia trasparire più o meno apertamente) le esperienze di vita di uno scrittore, e in particolare i luoghi (le città, le case, i paesaggi) che egli ha attraversato e che si traducono in segni stravaganti sulla pagina: ad esempio, un viale deserto può diventare un senso di abbandono e malinconia; un vicolo buio e contorto si può tradurre in un’atmosfera di sgomento; una fontana corrosa dagli anni s’incarna nella nostalgia del tempo perduto. (Ecco perché, forse, è difficile comprendere fino in fondo Il castello di Kafka senza aver visitato Praga, o la Recherche di Proust senz’aver sfiorato le rive del Loir nel paese di Illiers, o l’Ulisse di Joyce senza essere passati per O’Connell Street a Dublino. Ed ecco perché una trentina d’anni fa Carlo Dionisotti invitava gli studiosi a disancorarsi da un’idea di una letteratura unilineare, fondata su una successione cronologica di cause ed effetti, e a gettare uno sguardo anche alla geografia delle opere, appunto ai luoghi con cui lo scrittore è venuto in contatto e su cui l’opera letteraria si è costruita).
C’è un caso assai emblematico di questa tesi: si tratta del rapporto che s’instaurò, agli inizi del Novecento, fra un gruppo di intellettuali e la città di Ferrara. In effetti, sarebbe stato difficile trovare una città più adatta di Ferrara – dannunziana “città del silenzio”, con le sue ampie strade deserte, con la sua sospesa solitudine, col senso di attesa e di mistero che trasuda dai suoi monumenti – una città più adatta ad ospitare la nascita della metafisica. All’inizio del 1917, mentre stavano maturando le esperienze futuriste di Boccioni e di Marinetti, mentre incombeva l’estetismo di D’Annunzio e si affacciava timidamente la malinconia crepuscolare di un Gozzano e di un Corazzini, nella città estense si stava organizzando un singolare cenacolo d’intelletti, così diversi eppure accomunati dalla medesima sensibilità: Giorgio De Chirico e Carlo Carrà sono le anime del movimento nascente, ma intorno a loro gravita un focolaio di cervelli brillanti, da Alberto Savinio (alias Andrea De Chirico, ovvero fratello di Giorgio) a Filippo De Pisis a Corrado Govoni.
C’è una cosa, dicevamo, che sopra tutte lega gli ingegni del gruppo: la suggestione per un punto di vista surreale del mondo; le pieghe del mistero che si nascondono sotto i contorni della realtà; immagini di sospensione, attesa, presagio; una sorta di occhio veggente e di accostamenti improbabili fra le cose. Ci sarebbe da domandarsi, allora, se nacque prima il movimento o il fascino per la città. Se, cioè, era già negli intenti di questi artisti un simile programma letterario, o se piuttosto fu la suggestione inconfondibile di Ferrara, l’atmosfera di sogno e d’irrealtà che spira da quella città, a influenzare e a ispirare la nuova idea culturale.
Non è possibile, naturalmente, sciogliere un quesito del genere, ricostruire l’esatto rapporto di causa ed effetto, ma quel che è certo è che De Chirico e Carrà riconobbero subito in Ferrara l’ideale e perfetto referente simbolico del loro movimento. Ovvio che, poi, ognuna di queste menti poetiche tradusse a proprio modo quella comune suggestione ferrarese. Ma restò fortemente radicata un’idea (che incontrò una forte diffidenza da parte dall’ambiente culturale ferrarese, specie da parte delle riviste locali “Poesia e Arte” e “Arte nostra”), che si ritrova nelle pieghe e nei profili della città e, quindi, nell’arte di De Chirico, che si fermerà a Ferrara per tre anni assieme a Carlo Carrà.
La pittura metafisica di De Chirico, in effetti, senza raggiungere le posizioni estreme dei surrealisti, ossia la rivoluzionaria liberazione verso l’inconscio e il casuale, s’impianta – sembra una contraddizione – su una base classica e verosimile. Sembra cioè che l’artista mantenga inalterata la dimensione costruttiva della realtà, ma la collochi in un’atmosfera sospesa ed improbabile, sul baratro dell’enigma e del mistero, senza l’ombra dell’inquietudine che accompagna molte altre produzioni novecentesche. “Nella parola metafisica – scrive De Chirico – non vedo nulla di tenebroso: è la tranquillità stessa e la bellezza priva di senso della materia che mi sembra metafisica, e tanto più metafisici sono gli oggetti, che per il nitore delle tinte e l’esattezza delle proporzioni si trovano agli antipodi d’ogni confusione, d’ogni nebulosità”. Si potrebbe in queste parole rintracciare l’essenza del movimento, o meglio ancora nelle celebri Muse inquietanti e Ettore e Andromaca, dove il manichino, con la sua magica presenza, diviene l’unico abitante possibile in un sospeso, deserto, evanescente pianeta.
Lo stesso dicasi per l’Hermaphrodito di Alberto Savinio (che si trovava a Ferrara già dall’estate del 1915), dove “l’uomo di ferro ha un’esistenza muta, ché gli mancherà il dolore, la passione, la fede”; o per le prose liriche di Carrà, fra echi crepuscolari e pascoliani, invariabilmente ambientate a Ferrara, dove lo schizzo in versi consente di fissare trame oniriche e simboli segreti sotto la superficie della realtà; per le pagine piene di grazia e d’ispirazione della Città dalle cento meraviglie di Filippo De Pisis (nato a Ferrara nel 1896), un libro dedicato alla città estense, “vasto panorama di personaggi e di emozioni in chiave metafisica”, dove i luoghi dell’infanzia sono investiti da soffio surreale ed onirico.
Sarebbe troppo facile rinvenire le tracce ferraresi in queste opere letterarie e pittoriche, grazie agli evidenti ed espliciti riferimenti ambientali: il castello estense, il nome di una via, lo zampillio di una fontana del centro: Frara città del Worbas, s’intitola uno dei capitoli di Hermaphrodito. In realtà, la vera anima del luogo è assai più profonda. Non si limita a un nome, a un oggetto, alla buccia fisica delle cose.
L’essenza del luogo è data da un’atmosfera. Un castello che si erge nel centro della città, come sospeso nel vuoto, come uscito dal nulla. La condensa della nebbia che s’insinua nelle crepe, che impregna i muri, che avvolge i monumenti. Il disegno contorto dei vicoli antichi, con le case assiepate e il tubare dei piccioni.
Di questa atmosfera profonda e segreta sono intrise le opere metafisiche.
L’atmosfera che solo un luogo può donare.
Un luogo. Un’identità. Una storia.

Riferimenti:
Alberto Savinio, Hermaphrodito, Einaudi e Adelphi.
De Pisis, La città delle cento meraviglie, Vallecchi.