Un mondo senza libri

È pensabile un mondo senza libri?

Questa domanda, che apre una celebre riflessione dello scrittore Mario Vargas Llosa, non è affatto banale, e ci conduce su un territorio avvincente che investe non solo la cultura, ma anche, più intimamente, il nostro sguardo sulle cose, la nostra sensibilità, il senso del nostro esistere.

Dunque: come sarebbe il mondo senza i romanzi, le poesie, le opere teatrali, i saggi, le sceneggiature? Cioè: senza la letteratura?

Il rilievo di questo interrogativo, tutt’altro che ovvio, consiste nel fatto che una diffusa e accreditata idea relega il libro in quel piacevole e gustoso, ma in fondo lezioso e svenevole ambito delle occupazioni inutili, di cui si può fare perfettamente a meno: un aristocratico passatempo, un po’ snob, che può benissimo essere messo da parte per attività più produttive, redditizie e pratiche, di cui si riconosce l’immediato risvolto monetario, al confronto delle quali un libro diventa un intrattenimento d’altri tempi, riservato ai sognatori e ai visionari, gente poco affidabile, oppure ai dipartimenti universitari, alle biblioteche, alle signorili accademie, ma che, insomma, alla resa dei conti, non serve a niente.

Vi invito, allora, a fare un esperimento, un semplice gioco di fantasia. Provate ad immaginare se, tutto ad un tratto, svegliandovi domattina, per un fatalità imperscrutabile, scomparissero i libri.

O peggio ancora: vi svegliaste in un mondo in cui li libri non siano mai esistiti.

Che mondo sarebbe? Che individui incroceremmo per strada?

Magari, chissà, potrebbe essere un mondo tecnologicamente attrezzato, dai trasporti efficienti e dai sofisticati servizi pubblici, un mondo con potenti risorse informatiche, con una prodigiosa fibra ottica, dai materiali polimerici così formidabili da permettere un’eccezionale rete di telecomunicazione planetaria. Va bene, tutte cose pregevoli, ma gli individui? Voglio dire, le persone, i modi, i gesti, le sensibilità, i cuori?

Con ogni probabilità, sarebbero individui incapaci di esprimere, anzi peggio, incapaci di riconoscere, di intercettare, di perlustrare i loro sentimenti: incapaci di commuoversi davanti ad un tramonto, di apprezzare una passeggiata in montagna, di soffermarsi al cinguettio degli uccelli, al fruscio del vento, allo scroscio d’un ruscello. Peggio: individui incapaci di senso critico, di spirito sedizioso, di concreti atti di ribellione. Sarebbero automi, anonimi e sbiaditi, appiattiti in un’angosciante omologazione, simili all’idea che ci facciamo degli uomini primitivi che comunicavano con grugniti e smorfie scimmiesche.

Insomma, sarebbe una civiltà ammalata di un grottesco paradosso: da un lato forse attrezzata di un sistema tecnologico avanzato e progredito, ma dall’altro profondamente arretrata, rozza, insipida, omogeneizzata, cupa.

E sapete perché? Perché il libro, nella sua presunta inutilità, in verità possiede inesauribili preziose proprietà: accarezza ed allena la nostra sensibilità alla visione della bellezza; sollecita fantasia, emozione, creatività, divertimento, allegria; consente un dialogo universale fra gli uomini (di ogni epoca e di ogni geografia) attorno al territorio comune dei sentimenti; insegna a vedere nelle differenze etniche e culturali la ricchezza di un comune patrimonio umano; affina un senso critico nel rapporto con gli altri, una sorta di ragionamento sedizioso ed irrequieto, problematico e fibrillante, provocando così un’esuberante insoddisfazione e un’energica sete di libertà.

Un individuo che apre un libro di Shakespeare, Dante, Proust, Hemingway, Dostoevskij, in qualsiasi momento storico e in qualsiasi area geografica, s’immerge come per magia in una comunità universale, dove il denominatore collettivo è l’esperienza umana, l’esercizio intellettuale, la tenerezza dell’animo. Al contrario un individuo che non ha mai aperto un libro, o che legge poco, può magari parlare molto ma dirà sempre poche cose, banali e scontate: non è un individuo interessante, non solo perché avrà un lessico limitato o perché il repertorio dei suoi vocaboli sarà ridotto e inadeguato, ma anche perché il suo orizzonte immaginativo sarà povero, la tastiera del suo pianoforte creativo sarà minuscola, la sua finezza di astrazione e di trascendenza sarà trascurabile.

Per questo il libro, più di ogni avanzata tecnologia, possiede un’utilità inestimabile: instilla in noi una vigorosa forza evocativa. Ed è per questo che tutti noi siamo invitati a lottare coi i denti e con le unghie per affermare l’utilità del libro e far germogliare nella mente di chi ci circonda il piacere della bellezza della letteratura.

Andrea Pagani

[articolo uscito su "Il Nuovo Diario Messaggero" - 23 aprile 2021]

About pagani

Andrea Pagani insegna Letteratura e Storia, collabora con gli editori Principato e Zanichelli, tiene corsi di letteratura e scrittura creativa ad Università Aperta di Imola. E' autore di numerosi saggi e romanzi. Sul versante saggistico si è concentrato sulla storia e sulla letteratura del Cinquecento e del Novecento, mentre per la narrativa ha scritto in prevalenza romanzi di atmosfera gotico-simbolista. In veste di direttore artistico ha organizzato, per il Comune di Imola, il convegno su Calvino in occasione del Centenario. I suoi lavori su Joyce sono stati presentati ai Festival internazionali Bloomsday di Trieste e Pola.

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